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SULLO STATO DELLE CARCERI

Da maggio a novembre 2023 siamo entrati all’interno di tre istituti penitenziari marchigiani con tre laboratori di cinema di animazione in stop-motion. Abbiamo coinvolto più di 25 persone detenute: dopo le tre settimane di lavoro, abbiamo montato e postprodotto i cortometraggi, per poi riportarli all’interno delle carceri con l’intenzione di restituire e attivare una riflessione sull’attività svolta.

Purtroppo non ci sono ancora dati e ricerche che studino precisamente l’impatto dei laboratori creativi sulle persone che si trovano a vivere all’interno degli istituti di pena. Ci siamo messe in ascolto di ciò che emergeva, ma, nonostante i bei commenti e le richieste di reiterazione dell’attività, sono stata sconvolta da dubbi profondi, domande agghiaccianti e un vago senso di colpa.

Ha senso portare all’interno dei penitenziari un laboratorio di cinema d’animazione – o di ceramica, o di scrittura, o di pittura? A che scopo? Cosa accade dopo l’ultimo minuto di laboratorio, quando, ricomposti gli scatoloni e fatti gli zaini, lasciavamo il carcere? Cosa rimane? Quanto quello che facciamo, nelle carceri come in tutti gli istituti di controllo e nelle realtà che si occupano di marginalità, lo facciamo per noi, privilegiati numeri uno del mondo occidentale, pienamente turgidi nel nostro stato di diritto? Quanto e perchè ci sentiamo così bene dopo che abbiamo fatto la nostra buona azione? È una buona azione? Per chi? Quanto pietismo e infantilizzazione ci mettiamo dentro queste attività?

Parlando con le persone detenute, tutte ci hanno ringraziato: ci avete fatto passare una settimana in allegria, ci avete coinvolto in una attività che ogni giorno ci impegnava. Passare il tempo, trovare dei modi per farlo, è già tantissimo. Sì, ok. Ma poi, quando le celle si richiudono e la sera penetra tra le grate, che cosa rimane alla persona che si corica nella sua scomoda branda? Quanto è borghese credere che, benchè in un modo del tutto immateriale, quel laboratorio potrebbe spostare di una virgola il lungo filo del discorso delle vite delle persone detenute? Quanto invece è reale? Nella mia vita, certo borghese, lo è: molti semi gettati in piccole esperienze pedagogiche hanno germinato e mi hanno portata fino a qua. Eppure, nella sala polivalente di uno degli istituti in cui abbiamo lavorato, c’era una lunga grande folta biblioteca. Lì, c’erano titoli – tutti solo in lingua italiana – interessanti come titoli monnezza: ci hanno spiegato che molte persone, prima di dare al macero i volumi, li portano in carcere. L’ultimo luogo prima della discarica – sia a livello urbanistico che concettuale. Al di là della qualità dei libri e del modo di recuperarli – ci sono anche cooperative e associazioni che si impegnano molto per portare letture di qualità dentro i penitenziari, non voglio essere una voce devastante tout court -, il punto è che le persone detenute presenti, per la stragrande maggioranza, non sanno leggere. No, non lo sanno fare.

Quali sono le priorità? Chi le decide? Da dove si parte? Il riformismo è una via? Sì, se penso che quelle persone lì ci abitano, e lì devono stare: allora varrà certamente la pena entrare e portare un laboratorio creativo di qualità e di gruppo. Però anche no, perchè l’orizzonte utopico che io intravedo ogni giorno non è fatto di istituti di controllo, di violenza e di pena, ma è fatto di comunità, di piacere e di desiderio. E allora, come si fa?

C’erano tutte queste tensioni e questi interrogativi all’interno dell’incontro pubblico SULLO STATO DELLE CARCERI, che si è tenuto lo scorso 25 gennaio a Jesi, a Palazzo dei Covegni. Antigone Marche si è messa a nostra disposizione per informarci e guidarci nella giungla intricata del mondo degli istituti di pena, e, a più ampio raggio, nella nevrosi di un sistema di controllo, di contenimento, di espulsione dell’alterità.

Voglio ringraziare Sabrina Maggiori, che oltre ad essere una collega preziosa è anche una persona con cui, tutti questi discorsi, li riesco sempre a fare. Grazie alla docente Benedetta Sani, animatrice pazzesca e amica cara che accoglie e si interroga sempre, e grazie a Matteo Giacchella, professionista, amico, mago di cineprese e umanità: loro hanno dato voce al lavoro quotidiano con le persone detenute. Grazie ad Alessandra, testimone delle pene e del confinamento, donna forte che lotta con me. Grazie ad Arci Jesi-Fabriano, culla e casa di idee e progettualità complesse. Grazie a Nottenera, culla e casa di bellezza, arte ed emozione, di ascolto. Grazie ad Antigone Marche, che ci ha prese per mano e ci ha portate più vicine al cuore delle cose. Grazie agli animatori supersonici Ahmed Ben Nessib e Roberto Paganelli, parte della squadra di docenti che erano con noi anche se da lontano. Grazie a chi, alla fine delle serata, ha speso una parola per dire che ne è valsa la pena.