Il titolo di questo blog è nato per caso: stavo ragionando sulle combinazioni delle lettere del mio nome – da qui cacio -, poi ho pensato che questo spazio sarebbe potuto diventare confusionario per la mia poca costanza, e quindi ho pensato alla parola caciara. Solo caciara mi sembra il nome di un gruppo indie italiano, solo cacio mi sembrava da blog culinario. Dopo un po’ che ragionavo, mi sono chiesta se cacio e caciara fossero parole correlate o avessero un’etimologia comune.
Il cacio è un sostantivo generico che significa formaggio. Prima di essere inserito tra i termini del dialetto romano – in realtà ha origine nel centro Italia – come sinonimo di confusione e chiasso, la caciara era il luogo di produzione dei formaggi. Era una costruzione simile ai trulli pugliesi, anche usata come deposito per gli attrezzi agricoli quando non era tempo di latte – da qui anche casale!
Le caciare erano luoghi rumorosi e popolari in cui i pastori massaggiavano, rivoltavano e battevano sale, olio e yogurt per produrre il cacio. Dal rumore della lavorazione del formaggio, dalla confusione delle voci dei contadini, dai litigi e dai canti che intonavano per tenersi compagnia, il tipo di confusione oggi descritta dalla parola caciara è vitale, proletaria, di intesa, di complicità estrema.
In sè è sorprendente che negli anni ’30 descrivesse un luogo di lavoro e che oggi caciara significhi chiasso: ciò che mi eccita è la lentissima risignificazione di questa parola, i momenti di trasformazione sottile e silenziosa. Mi commuove pensare ad una persona che, sentita per la prima volta la parola caciara in un contesto totalmente estraneo, l’abbia giudicata un grave errore o, magari, una geniale e perfetta associazione di idee. Mi disarma, sopratutto, quel soggetto che per primo ha avuto l’istinto di usare caciara per descrivere la confusione e la confidenza di urla, sguardi e voci. Anche usate tutte assieme, le altre parole non erano sufficienti, non erano giuste per raccontare quell’intensità e quella bellezza. Era un errore che arrivava dritto dritto alle viscere.
I padroni dell’informazione hanno dimenticato la poesia, in cui le parole possono avere un significato molto diverso da quello del vocabolario, dove la scintilla metaforica va sempre oltre la funzione di decodifica, dove un’altra, imprevista lettura è sempre possibile.
J. M. Coetzee, “Diario di un anno difficile”