In treno abbiamo pianto sempre: non è mai facile abbandonare un letto caldo. Siamo tornate in città dopo sei anni di esilio volontario. La Madonnina si è accorta ed è gentilmente inorridita di fronte a noi. Già allora il Miracolo era scomparso, sai?: caduto dietro al muro bianco che circonda la città. Come se poi fosse colpa di Milano se tutto intorno a noi vibra questo disincanto terrificante. Ecco, lì c’è l’ospedale dove volevamo farci ricoverare; ecco, il bar dove abbiamo litigato. Ecco, qui è dove non siamo mai venute quando eravamo a Milano. Presto i ricordi si risvegliano e subito proviamo di nuovo le vertigini nei piedi.
Ci facevamo affabulare anche noi dalle osterie a buon mercato, dalla cumbia nei palazzi vecchi del centro, dai grattacieli che spuntavano sopra la cascina dove c’era quel festival di musiche dal mondo in cui tutti andavano in giro scalzi. Ci facevamo raccontare tante storie, da Milano. Storie che erano le stesse che ci raccontavano all’Accademia. Entravamo in classe riposate dalle notti di rumore bianco, e ne uscivamo stravolte: erano quattro i professori degni di questo titolo che ricoprivamo di amore e stima. Dallo loro bocche dolci di sapere uscivano parole sulla indomabile dissoluzione del mondo e degli uomini: tutto ciò che da sempre aveva accolto le nostre convinzioni si sgretolava velocemente e ciò che ci stava intorno palesava giorno dopo giorno la sua inconsistenza – o anche la consistenza tipica della merda, come vuoi.
Ma non siamo mica nella pubblica! qui gli amati docenti offrivano al branco di studenti anche delle soluzioni imperdibili – e originalissime! Di fronte allo scioglimento dei legami tra le cose, le parole e il mondo rinvigoriva l’importanza del saper riconoscere nel mondo la radice, l’origine, la magia. C’era sì spazio per l’inestricabile perversione di parole e cose, ma spuntava sempre anche una rivelazione, una sorta di possibilità di grazia. Ecco a voi il cosiddetto miracolo delle tovaglie a scacchi.
Così, noi, cagne sciolte, abbindolate da queste parole di salvezza, ci affannavamo a fiutare dei legami veri, a dissotterrare l’autenticità dello stare assieme e ricercare istintivamente – mica tanto – il profumo del branco. Ma queste cose, a Milano, non si possono dire, Marcello. Non si possono fare, certe scoperte a Milano. Non va bene, è istigazione alla violenza, è istigazione alla follia. Vallo a spiegare un po’ tu, con i tuoi quattro amati colleghi, a una che poi quando esce a portare il cane a pisciare, vede tutto buio fuori, tutto stonato – e quindi, se era stata bene a sentire in classe, tutto perduto.
Caro Marcello, perchè quei quattro professori non ci avevano avvertite di stare attente? Sapere certe cose è peggio di un acido storto: una volta assunte non si possono più cancellare. E non si può più cancellare nemmeno la nausea di saperle e continuare a camminare con il cane che tira al guinzaglio in direzione Sant’Ambrogio. E, Marcello, sai cosa è che ci ha mandato fuori di testa? Che nessuno attorno sembrava sentire quell’acre odore di morte: tra la cocaina e un giro in Darsena, tutto procedeva a vele spiegate.
Siamo tornate quindi, dopo sei anni e avevamo questo bagaglio di parole inespresse. Solo che, mannaggia, ci hai fatto incazzare, Marcello. Noi eravamo diventate così brave! Ci stavamo contenendo, stavamo lasciando andare le cose, ci stavamo abbandonando ai parchi, all’andamento dei tram, alla pioggerella pallida. Ci stavamo sedando, stavamo rimuovendo e facendo finta di nulla. Poi siamo entrate al PAC, Marcello.
Tu parli la nostra lingua? Senti quello che sentiamo noi? Oh, quanto vorremmo ora abbracciarti, come vorremmo abbracciare Milano, creatura tutta umana che non sa di sapere quanto ha valore ciò che ci tiene in vita. Milano deve morire, bruciare di fronte al Dio che tutto il ferro scioglie e tutta la finzione denuda come città che ha corrotto il bene in un bene organizzato e individualizzato.
O forse, caro Marcello, Milano deve vivere, perchè solo così possiamo tornarcene in provincia, un giorno di gennaio, incazzate, eccitate, incantate, a fare l’amore sopra la tovaglia a scacchi della nonna. A ciucciare il nostro piccolo bene.
Un saluto,